Sabato 24 alle ore 17 si riunì il Gran Consiglio del Fascismo, organo istituzionale creato da Mussolini quindici anni prima, e che avrebbe dovuto aiutare e consigliare il Capo nelle decisioni più significative ed importanti dell'Italia di allora. E che, di fatto, stabiliva le leggi che poi sarebbero state votate dai due rami del Parlamento. Ma Mussolini non lo convocava più dal 1938, perciò da ben cinque anni; non lo aveva fatto nemmeno in concomitanza con l'importantissima decisione di entrare in guerra accanto alla Germania nazista, nel giugno del 1940. Decideva tutto da solo, o quasi. Questo importante organo del regime era stato, in buona sostanza, accantonato. Lo si rispolverava adesso che le truppe straniere erano entrate in Italia, iniziando l'occupazione del territorio nazionale dalla Sicilia. Il Re aveva bisogno, costituzionalmente, del voto contrario al Duce da parte di un organo ufficiale, per poi procedere a revocare il mandato a Mussolini. La seduta del Gran Consiglio era agitata. Mussolini sedeva al centro del grande tavolo a forma di ferro di cavallo, ad un ripiano leggermente innalzato rispetto ai lunghi tavoli che lo attorniavano. Accanto a lui i gerarchi, fra cui Scorza, De Bono, Ciano, Grandi, Farinacci. Grandi aveva nelle tasche delle bombe a mano, e sabato mattina aveva fatto la Comunione. Si era, quindi, preparato al peggio: si temeva una reazione della Milizia, al comando del fedelissimo Giuriati. Proprio Dino Grandi, che rivestiva la carica di presidente della Camera, presentò, nelle prime ore di domenica 25, il suo famoso ordine del giorno, che invitava il Duce a farsi da parte, e a restituire a Vittorio Emanuele il comando effettivo delle truppe. Il documento fu votato, dopo aspre e veementi polemiche, ed ottenne la maggioranza. Mussolini, visibilmente contrariato, pronunciò le parole "Con questo voto avete provocato la crisi del regime", e subito sciolse la seduta. Il capo della Milizia stava per ordinare agli astanti il "saluto al Duce", ma Mussolini disse, con voce stanca, "Ve ne dispenso". Tutti tornarono a casa, eccitati e preoccupati per quello che sarebbe potuto succedere nelle ore successive. Alcuni gerarchi, temendo l'arresto ad opera della Milizia Nazionale, si rifugiarono in case amiche, per passare la notte. Altri si allontanarono precipitosamente da Roma. Domenica mattina il Duce si recò a visitare il quartiere romano colpito dal recente bombardamento del 21 luglio, e fu accolto con tiepidi applausi da una popolazione stremata dalle privazioni e dalla preoccupazione per gli eventi, che era evidente stavano evolvendo verso il peggio. Mussolini chiese udienza al Re, che gli fece comunicare che lo attendeva alle 17 a Villa Savoia, dove la Famiglia Reale trascorreva quelle giornate estive. Dal Quirinale arrivarono diverse telefonate, che raccomandavano che Mussolini si doveva presentare all'udienza non nella divisa di Maresciallo dell'Impero, bensì vestito in borghese, cosa che egli ormai faceva raramente. Rachele, la moglie, insospettita da queste strane telefonate, invitava Benito a non recarsi all'appuntamento con una scusa, perché subodorava un tranello. Come infatti avvenne. In quel caldo pomeriggio di luglio, alle cinque l'auto di Mussolini varcava il cancello della tenuta che circondava Villa Savoia. Oltre all'autista, c'erano solo il Duce e il suo segretario, Nicola De Cesare, che recava una voluminosa cartella piena di documenti. La scorta personale di Mussolini si fermò, rispettosamente, come di consueto in questo tipo di visite, al di fuori del cancello, e l'auto del capo del Governo si inoltrò lentamente lungo i viali del magnifico e curato parco. Il Duce indossava un completo blu scuro, e portava in testa un cappello nero. Il Re attendeva il Duce all'ingresso, l'autista fu invitato a portare lontano la vettura presidenziale, e venne isolato e piantonato. Presto il capo dello Stato e il capo del Governo furono nello studio, e Vittorio Emanuele, con voce strozzata dall'emozione, esordì dicendo che la situazione era precipitata, che il "sacro suolo della Patria" era stato violato da truppe nemiche, che Mussolini aveva ormai quasi tutti contro, e pochissimi amici, fra cui, diceva il Re, proprio lui medesimo. Accennò al voto "di sfiducia" del Gran Consiglio, al che Mussolini estrasse delle carte dalla valigetta e si affannò a spiegare che il voto era solo consultivo, e non aveva conseguenze giuridiche. Ma il Re tentennava la testa, aggiungeva che il voto era un segnale preciso della caduta di fiducia nell'opera di Mussolini, e proseguiva dicendo che egli aveva deciso di nominare un altro capo del Governo. Mussolini accasciatosi improvviamente, mormorava parole di difesa, obiettava con argomenti deboli, ma il Re aveva deciso: il nuovo Primo Ministro sarebbe stato Badoglio. Occorre anche ricordare che il Re, temendo un'improbabile, ma sempre possibile, reazione violenta di Mussolini, aveva disposto che il generale Puntoni, suo aiutante, stesse dietro ad una porta dello studio, pistola in pugno, pronto ad intervenire se la situazione precipitava. Ma il Duce non reagiva: sembrava annientato. I due personaggi terminano il colloquio, il Re accompagna fuori Mussolini, il quale, senza proferire una parola, riconsegna la sua borsa a De Cesare, che aveva naturalmente atteso fuori, in anticamera. I tre si avviano all'uscita e, sotto il pronao che sormontava l'ingresso alla villa, Vittorio Emanuele saluta Mussolini, stringendogli vigorosamente la mano e, cosa mai successa prima, porge la mano anche a De Cesare. Mussolini e il suo segretario iniziano la discesa lungo la rampa inclinata che porta al giardino, mentre il Re, con una certa doppiezza poco regale, chiede "Dov'è la vettura del Duce?" Sotto lo sguardo del sovrano, i due arrivano alla base della breve rampa. Si fa avanti il capitano dei Carabinieri Vigneri, che si presenta a Mussolini, lo saluta militarmente e poi - immaginiamo con quale emozione e tumulto nel cuore - gli dice: "Eccellenza, per la sua sicurezza devo pregarvi di seguirmi." In quel momento si avvicina un'ambulanza, che aveva stazionato dietro l'edificio, e la portiera posteriore viene aperta, dentro vi sono numerosi Carabinieri, in assetto di guerra. Mussolini fa per scansarsi, con una certa stizza, e mormora che non c'è affatto bisogno di proteggerlo, ma Vigneri insiste e prende per il gomito il Duce, invitandolo a salire sul mezzo. Cosa che subito avviene, e anche De Cesare entra nell'ambulanza. Il veicolo esce da un'uscita secondaria, all'insaputa della guardia presidenziale che sosta all'ingresso principale. La caduta del dittatore si è avverata in un mezz'ora. Stranamente (e ancor più strano che nessuno lo dica mai) nessuna immagine - non dico un filmato, ma almeno qualche foto scattata da dietro un albero, di soppiatto - ci reca la testimonianza di questa drammatica pagina della nostra storia. Nemmeno l'arrivo del Duce a Villa Savoia, quando un fotografo, anche visibile, non avrebbe suscitato sospetti (o quasi...). Sono le 17.20. Poco dopo giunge in alta uniforme Pietro Badoglio, che riceve dal Re l'incarico di formare il governo, che sarà di natura tecnica. Gli italiani non sapevano ancora niente dell'accaduto. Alle ore 22.47, un drammatico comunicato alla radio, metteva tutta l'Italia a conoscenza della storica svolta, e della fine del Fascismo, dopo oltre un ventennio. Lo speaker Titta Arista, accompagnato ai microfoni da un carabiniere, legge con voce ferma e solenne, scandendo bene le parole, questo testo: "Attenzione...attenzione... Sua Maestà, il Re e Imperatore, ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del governo, Primo Ministro, Segretario di Stato, presentate da sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato, sua eccellenza il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio."
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