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giovedì 21 agosto 2008

Alessandro Pavolini - Gerarca Fascista (firenze 27.09.1903 - Dongo 28.04.1945)


Nato a Firenze il 27 settembre 1903, fucilato a Dongo (Como) il 28 aprile 1945.
Appartenne, con Buffarini Guidi, al "granducato di Toscana", come venne chiamato dagli stessi fascisti quel sodalizio che fu il ceppo più solido del vecchio squadrismo, del gerarchismo del ventennio, come dell'ultima reviviscenza di Salò. Figlio del glottologo Paolo Emilio, docente di sanscrito e filologia all'Università di Firenze, anche il futuro ministro della cultura popolare, mostrò dapprima interessi culturali e, durante gli studi ginnasiali, una forte inclinazione per il giornalismo e pubblicò novelle e romanzi. Attività non disgiunta da quella politica che lo portò, dopo l'iscrizione al partito fascista, a essere parte importante delle più famigerate, violente e sanguinarie squadre d'azione fiorentine. Con queste premesse (con analogia col detto "semel sacerdos semper sacerdos”, usava dire che una volta diventati squadristi, squadristi si resta), poté scalare rapidamente i gradi gerarchici e diventare segretario della federazione fascista di Firenze nel 1929. In divisa di aviatore partecipò ai bombardamenti contro la popolazione etiopica, pressoché inerme, nel corso della guerra coloniale fascista d'Abissinia (1935). Dopo la prova di spirito guerriero e di impegno militare che ogni gerarca era tenuto a dare, insieme a una ripresa di interessi letterari, assunse incarichi che, al contrario, lo portarono a compiti di repressione della libera manifestazione del pensiero. Prese parte, infatti, alla creazione della Commissione di bonifica che doveva mettere al bando, pur non organizzando roghi di libri, tutte le opere non strettamente corrispondenti all'ideologia mussoliniana. Le vittime più illustri di questa drastica censura furono gli autori russi e, inutile quasi dirlo, quelli ebrei. Era il 1938, l'anno delle leggi razziali. Nel 1939, Alessandro Pavolini compie, protetto dal ministro degli esteri Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, un altro importante passo avanti: viene nominato ministro della cultura popolare e inaugura la stagione delle grottesche "veline", cioè impartisce alla stampa indicazioni obbligatorie per la presentazione degli avvenimenti, di politica interna o estera o di economia; direttive non solo censorie e distorcenti, ma anche tanto stravaganti e ridicole che divennero oggetto di scherno e derisione all'interno dello stesso apparato fascista. E quel ministero, nello stesso linguaggio usuale tra gerarchi, venne tout court definito Minculpop. Esonerato da quell'incarico nel febbraio 1943 con il solito "cambio della guardia", Pavolini venne nominato direttore del quotidiano romano Il Messaggero. Alla defenestrazione di Mussolini, il 25 luglio 1943 con il voto del "gran consiglio del fascismo" si rifugiò nell'ambasciata tedesca trasformata, come scrisse il colonnello della SS Dollman, in un'agenzia di viaggi, tanti erano i gerarchi fascisti che vi si erano rifugiati chiedendo protezione. Pavolini, con Ciano e altri, venne fatto espatriare e rifugiare in Germania, da dove ritornò soltanto dopo la liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso per partecipare all'ultima incarnazione del fascismo in quella larva di stato che fu la "repubblica sociale italiana".Pavolini divenne segretario generale del partito fascista repubblicano, assommando altri incarichi e ruoli. Fu uno dei più pertinaci accusatori dei "traditori" del 25 luglio, cioè di Ciano e di coloro che votarono contro Mussolini, fucilati dopo il processo-farsa che venne imbastito a Verona. In quel periodo agonico del fascismo, Pavolini riuscì ad accumulare grande potere nella sua persona, muovendosi abilmente tra le faide interne. Si schierò con coloro che vollero impedire la coscrizione obbligatoria, contro la tesi del generale Rodolfo Graziani che voleva creare un esercito "apolitico". Fondò la sua polizia, le brigate nere, che sparsero a piene mani, nelle città e nelle campagne, tortura e morte. Nei giorni finali della tragedia della rsi, insieme a Mussolini, sempre più abulico e conscio del suo fallimento e della sconfitta definitiva, si immaginò di poter finalmente realizzare l'ultima difesa in un ridotto alpino, in Valtellina e lì resistere all'offensiva partigiana concentrando tremila "camicie nere". Ma il 26 aprile 1945, quando Mussolini decise la fuga avviandosi verso Menaggio, Pavolini con i suoi cosiddetti 5.000 uomini non c'era, né nessuno sapeva dove fosse.La colonna di Mussolini venne fermata dai partigiani, Mussolini e i gerarchi arrestati. Pavolini riesce a fuggire e nascondersi per breve tempo. Catturato, venne fucilato a Dongo con altri gerarchi, secondo l'ordinanza del Comitato di liberazione nazionale.

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